L’accordo di composizione del debito nella gestione del sovraindebitamento

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Nell’istant de Il Sole 24 Ore uscito lo scorso 24 Novembre dedicato alla L. 3/2012 ho rilevato come, dopo un periodo di gestazione non breve, frutto anche del pressapochismo normativo di cui sono stati vittima, gli strumenti di composizione della crisi da sovraindebitamento stanno piano piano iniziando a trovare utilizzo.

Il contesto generale è quello della difficoltà strutturale e non momentanea del soggetto, individuale o collettivo, nel rimborso dei debiti contratti secondo i termini convenzionalmente stabiliti, ovverossia, secondo la definizione dell’art. 6, comma 2, della L. 3/2012, del “perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte ed il patrimonio prontamente liquidabile per farvi fronte, da cui consegua la rilevante difficoltà o la definitiva incapacità di adempierle regolarmente”.

E’ noto come non vi fossero, prima della introduzione di questi strumenti, alternative sostanziali per il debitore non assoggettabile a procedure concorsuali o alle soluzioni negoziali di gestione della crisi o dell’insolvenza di cui alla Legge Fallimentare (R.D. 267/1942). La soluzione della crisi non poteva che essere rimessa alle azioni esecutive individuali dei creditori, e al relativo concorso alla liquidazione forzosa del patrimonio del debitore. I risultati, per debitore e creditore troppo spesso si sono dimostrati insoddisfacenti, premiando invece l’intervento del terzo acquirente dei beni, aggiudicati a prezzi molto convenienti specie nel contesto immobiliare. La chiusura della procedura esecutiva lascia spesso i creditori largamente impagati, il debitore ancora tale e non esdebitato, ancorchè impoverito, ed il terzo acquirente spesso arricchito.

Come per la sorella maggiore e ampiamente collaudata, la Legge Fallimentare, anche la L. 3/2012 ha la finalità di offrire soluzioni diverse, che possano condurre almeno in potenza ad un risultato maggiormente appagante per i creditori, ed in fondo anche per il debitore.

Tre sono le soluzioni che la Legge 3/2012 offre: l’accordo di composizione della crisi, il piano del consumatore e la liquidazione del patrimonio. Nel contributo pubblicato ci siamo occupati dei primi due, riporto qui alcuni cenni sull’accordo di composizione.

L’art. 7, comma 1, prevede che il debitore in stato di sovraindebitamento possa proporre ai creditori un accordo che si basi su un piano, e che contenga una proposta di ristrutturazione del debito e connessa soddisfazione dei creditori. Il successivo comma 1-bis, ancora alla predisposizione del piano anche il secondo dei due strumenti, accessibile solo al consumatore. Il punto di partenza è quindi analogo ed i termini della proposta potenzialmente assai ampi, pur con alcuni limiti che è bene chiarire.

La proposta non può

  1. prevedere alcun tipo di falcidia o moratoria, e quindi in sostanza alcuna modifica dei termini ordinari di adempimento, per i crediti cosiddetti impignorabili, di cui all’art. 545 del codice di procedura civile, ai quali deve quindi essere assicurato il regolare e tempestivo pagamento; si tratta dei crediti alimentari, ai quali viene assegnata una speciale protezione in ragione della particolare condizione del creditore,
  2. prevedere falcidia di crediti costituenti risorse proprie dell’UE e dello stato per Imposta sul Valore Aggiunto e ritenute alla fonte, di cui è possibile ipotizzare unicamente la dilazione, secondo un meccanismo che ricorda da vicino la disciplina della transazione fiscale di cui all’art. 182bis della Legge Fallimentare, con la differenza, non irrilevante, che nella composizione della crisi da sovraindebitamento costituisce regola fissa ed inderogabile, mentre nel concordato preventivo (art. 160 e ss. Legge Fallimentare) e nell’accordo di ristrutturazione del debito (art. 182bis Legge Fallimentare) il divieto normativo interviene nel caso dell’utilizzo dello strumento della transazione; è pur vero che la giurisprudenza di legittimità ha da sempre assegnato al credito per IVA, e poi anche per ritenute, una sorta di superprivilegio indipendente dall’utilizzo della transazione fiscale, ma la recente sentenza C546-14 della Corte di Giustizia Europea ha aperto più di una breccia a favore della falcidiabilità; la misura della apertura non è ancora chiara, ma quel che è certo è che potrà incidere sull’orientamento giurisprudenziale, ma non su un divieto di legge, quale è quello dell’art. 7, comma 1, L. 3/2012,
  3. ignorare la gerarchia dei privilegi, per cui non è possibile ipotizzare il pagamento di creditori chirografari se contestualmente non è proposta la soddisfazione integrale di chi beneficia di cause di prelazione, con due eccezioni:
    1. la capienza cauzionale parziale del bene su cui la causa di prelazione insiste, secondo un criterio assimilabile alla previsione dell’art. 160, comma 2, Legge Fallimentare, cosicchè la quota di credito privilegiato che non trovasse copertura nel valore di realizzo del bene inciso subirebbe la degradazione a chirografo,
    2. il caso della finanza esterna, e quindi delle risorse che terzi rispetto al debitore rendessero disponibili, ed alle quali può essere assegnata la destinazione più confacente, svincolata dalle gerarchie dei privilegi.

Delineate le limitazioni, l’accordo deve basarsi su un piano, che chiarisca ai creditori quali azioni il debitore intende intraprendere, ed in che tempi, per rendere disponibile la provvista necessaria ad adempiere alla proposta di accordo loro formulata. Il piano, rispettate le limitazioni di cui sopra, può essere articolato nei modi più diversi, all’interno dei due generi liquidatorio o in continuità.

Dal piano discende la proposta di accordo, i cui termini convenzionali devono includere, appunto, modalità e tempi.

Il piano potrà assumere una struttura sinteticamente articolata come segue:

  1. descrizione della dinamica della situazione economica del debitore, inclusiva del dettaglio delle eventuali procedure esecutive in atto, e dello spirito della proposta, talvolta fortemente legata ad altre del medesimo nucleo familiare o societario,
  2. esame dell’indebitamento, degli elementi patrimoniali attivi e dei flussi finanziari, che risulti a valle delle verifiche compiute con l’assistenza dei consulenti del debitore e/o del gestore designato dall’Organismo di Composizione della Crisi, o nominato dal tribunale ai sensi dell’art. 15, comma 9, della L. 3/2012.
  3. sintesi della azioni programmate, e quindi delle cessioni o dell’impegno alla prosecuzione dell’attività, ed evidenza della provvista che complessivamente si renderà disponibile nell’arco di tempo in cui il piano si dipana; si tenga presente che la norma non impone un limite massimo alla articolazione temporale, e che tuttavia è opportuno, affinchè il giudizio di fattibilità richiesto al gestore della crisi (art. 15, comma 6 e art. 9, comma 2) possa concretamente formarsi, limitare i piani liquidatori a qualche anno, e quelli in continuità a 5/8 anni, anche in considerazione del contesto in cui il debitore opera, e la sua anagrafe; si tenga conto inoltre che l’art. 4, comma 3, L. 3/2012 prevede una moratoria fino ad un anno dall’omologa dei crediti privilegiati, in caso di piano in continuità.

Sulla base dei risultati del piano, potrà articolarsi la proposta, con indicazione sia dei tempi e delle scadenze, sia anche della soddisfazione complessiva dei creditori in tutte le circostanze in cui oggetto di composizione siano crediti variamente riferibili al nucleo familiare o societario, in forza di garanzie concesse o del regime sussidiario di responsabilità legalmente previsto. E’ estremamente opportuno che sia chiarita nella proposta la prospettiva della miglior soddisfazione per i creditori rispetto all’eventuale ipotesi liquidatoria in tutti i casi in cui l’impostazione sia in continuità. Non si rinviene negli obblighi del gestore della crisi la cosiddetta doppia attestazione di cui all’art. 186bis Legge Fallimentare, e tuttavia è per lui irrinunciabile, nell’ambito del suo incarico, assicurare ai creditori che la continuità non realizza surrettiziamente lo scopo di mantenere in capo al debitore alcuni dei suoi beni, in danno ai creditori, ma che al contrario costituisce per loro una forma perlomeno analoga, ma auspicabilmente migliore, di soddisfazione.

Due questioni richiedono un approfondimento:

  1. la gestione di sovraindebitamento riferito a più debitori,
  2. il trattamento da riservare a quei creditori sociali che si siano procurati un titolo di prelazione sul bene di un socio, in forza del regime di responsabilità solidale cui sia sottoposto.

 

Il sovraindebitamento “di gruppo”.

Non di rado accade che l’indebitamento, cui l’accordo si propone di offrire composizione, sia riferito non solo al debitore società, ma anche a soggetti “collegati”. Il caso può essere quello della società semplice agricola e dei suoi soci, della associazione professionale e dei relativi professionisti, o della società personale costituita per l’esercizio di attività commerciale ai sensi dell’art. 2135 Cod. Civ. Il debitore soggetto giuridico collettivo che nell’esercizio della propria attività abbia contratto obblighi che lo espongono ad una rilevante e non reversibile situazione di sovraindebitamento potrebbe indurre anche i soci alla determinazione di avvalersi di una delle procedure di composizione della crisi di cui alla legge 3/2012. Le esposizioni debitorie riconducibili al debitore si inseriscono a quel punto in un più esteso contesto di sovraindebitamento, che coinvolge il debitore ed i soci, ed in certi casi anche coloro i quali abbiano prestato garanzia, personale o reale. In tali contesti diversi soggetti, personalmente o in qualità di soci delle società sovraindebitate, debbono contribuire alla composizione della crisi, poichè i debiti che ciascuno ha contratto per motivi personali e/o imprenditoriali riferiscono talvolta ai medesimi creditori, assistiti però da differenti diritti di prelazione. La domanda è se in quest’ambito si possa immaginare la fattibilità di un “ricorso di gruppo” attraverso cui gestire, unitamente e collettivamente, tutte le esposizioni debitorie del “nucleo” indebitato. Difficile purtroppo pensare che tale impostazione sia concretamente possibile al momento, seppur semplificatoria, posto che alla soddisfazione di ogni creditore concorreranno più soggetti. La perplessità sulla percorribilità di un soluzione negoziata unitaria deriva anche dall’orientamento da ultimo espresso dalla Suprema Corte con la Sentenza n. 20559/2015 in ordine al concordato di gruppo. La “descritta operazione” riferisce la Cassazione, “ha forzato il dato normativo – in particolare, la L. Fall., art. 161, e art. 2740 c.c. – oltre i limiti che, a mezzo di una mera interpretazione ed in mancanza di una disciplina positiva del fenomeno (una legge che intenda disciplinare il concordato preventivo di gruppo dovrebbe verosimilmente occuparsi di regolarne la competenza, le forme del ricorso, la nomina degli organi, la formazione – delle classi e delle masse), esso poteva ragionevolmente tollerare”. Difficile quindi pensare, in mancanza di esplicita previsione normativa, a soluzioni operative diverse dalla predisposizione di più piani, fra loro necessariamente coordinati ma inevitabilmente indipendenti, al fine di salvaguardare:

  • la distinzione fra le masse attive e passive riconducibili a ciascun soggetto;
  • il riconoscimento e mantenimento dei singoli diritti di prelazione vantati dai creditori nei confronti delle diverse masse che, diversamente, non potrebbero essere ugualmente garantiti;
  • l’autonoma espressione di voto all’interno di ogni singola proposta;
  • la pronuncia di differenti provvedimenti di omologazione, con conseguente effetto esdebitatorio circoscritto e limitato al singolo ricorrente cui la proposta viene votata e adempiuta nei termini promessi.

 

Creditori sociali o associativi con titolo di prelazione su beni del socio o associato.

Ulteriore riflessione merita la posizione di quei creditori del debitore che, in ragione di titoli ottenuti anche nei confronti dei soci illimitatamente responsabili, hanno potuto acquisire un titolo di prelazione, tipicamente l’ipoteca giudiziale, sui beni di questi ultimi. Il punto è se tali soggetti siano a questo punto, sulla base del titolo ottenuto, creditori del socio, al quale competa il regresso nei confronti del debitore originario, o meno.

Sul punto è di recente intervenuta la Suprema Corte a Sezione Unite (Cass. Civ. , S.U., 16.2.2015 n. 3022) che, nell’ambito di una procedura di concordato preventivo riguardante una società di persone, ha offerto un’interpretazione estensiva dell’art. 177, comma 2, Legge Fallimentare, in base alla quale andrà riconosciuta natura privilegiata al credito della società garantito da ipoteca gravante su beni immobili di terzi e, segnatamente, dei soci illimitatamente responsabili. Non muta quindi la soggettività del debito, che rimane unicamente riferibile al debitore originario, mentre si modifica la collocazione nella gerarchia delle prelazioni, in forza del titolo giudizialmente acquisito.

Muovendo dal presupposto che il principio propugnato dalla giurisprudenza di legittimità possa senza dubbio trovare applicazione anche nella gestione degli strumenti di composizione del sovraindebitamento, tenuto conto dei profilidi analogia e la comune ratio dei due ambiti, nell’accordo così come nel piano del consumatore i crediti assistiti da ipoteca iscritta sui beni dei soci illimitatamente responsabili debbono semplicemente essere considerati di natura privilegiata. Nel piano quindi i crediti garantiti da ipoteca iscritta sugli immobili dei soci vengono riconosciuti come crediti privilegiati e soddisfatti integralmente o comunque nei limiti della capienza del valore di mercato del bene gravato, con la conseguenza che, in analogia con quanto previsto dall’art. 184 Legge Fallimentare, tale modalità di soddisfacimento produrrà un effetto remissorio ed esdebitatorio nei confronti dei soci illimitatamente responsabili, relativamente ai debiti sociali.

L’approccio del Gestore della Crisi

Una riflessione meritano le metodologie di approccio alla verifica della veridicità dei dati. E’ noto il ruolo dell’organismo di composizione della crisi, e per lui del gestore delegato, istituzionalmente ambiguo. Collabora, assumendo ogni iniziativa funzionale alla predisposizione del piano, con il debitore, e nel contempo assume le funzioni di ausiliario del giudice e di garante teoricamente terzo della corretta dotazione informativa a favore dei creditori. In relazione alla fase di sviluppo della procedura, è quindi più assimilabile all’advisor (nella preparazione), all’attestatore (nel deposito) ed al commissario giudiziale (dal deposito e fino all’omologa). Tenuto quindi ad un difficile gioco di equilibri, dovendo tutelare interessi diversi e necessariamente contrapposti, interviene inoltre in un ambito in cui troppo spesso l’ausilio della rappresentazione contabile del patrimonio è perlomeno esiguo. Società agricole, così come altre forme di esercizio collettivo o individuale di attività, sono estranee rispetto alle previsioni dell’art. 2214 Cod. Civ., che solo all’imprenditore di cui all’art. 2195 Cod. Civ. impone la rappresentazione contabile delle operazioni e la tenuta del libro giornale. La società semplice agricola, nella fattispecie, non ha alcun supporto contabile se non finalizzato agli adempimenti del regime speciale IVA cui è assoggettata (art. 34 DPR 633/1972), e quindi la verifica dell’indebitamento è perlomeno disagevole, ed impone una attenta ricostruzione. Difficile pensare che siano applicabili apoditticamente i principi di attestazione (delibera CNDCEC del 3 settembre 2014), che ad altre e più strutturate circostanze sono dedicati, e tuttavia il giudizio di veridicità dei dati è richiesto. Si tenga inoltre conto che la L. 3/2012 non prevede alcuna misura di protezione del patrimonio preventiva rispetto al decreto di ammissione, cosicchè sino ad allora le ipoteche giudiziali eventualmente iscritte da un creditore titolato non potrebbero che essere valutate opponibili, con le conseguenze sul piano e sul trattamento dei creditori che è facile dedurre. L’analisi dell’advisor e del gestore è quindi prevalentemente interna, complessa perchè di integrale ricostruzione del patrimonio, ed impegnativa, posto che i tempi disponibili sono solitamente molto ridotti.

Il passivo può essere, una volta ricostruito, suddiviso in classi al fine di meglio strutturare la proposta di soddisfazione. Non vi sono conseguenze sul consenso rispetto alla proposta, che si determina sul complesso dei creditori votanti (60%), indipendentemente dalle classi. Non vi sono neppure requisiti di omogeneità economica e giuridica, che la legge non richiama, e tuttavia l’obbligo generale di rispetto della gerarchia dei privilegi non consente di abusare dell’articolazione in classi, che devono contenere posizioni debitorie perlomeno sotto quel profilo omogenee.

I risultati del piano, che prevede la prosecuzione dell’attività e non la liquidazione dei beni, anche perchè maggiormente soddisfacente per i creditori, consentono di configurare la proposta ai creditori, che prevederà contenuti convenzionali sia in termini quantitativi che di modulazione e definizione dell’impegno del debitore.

Avuti in considerazione i risultati del piano, la proposta può probabilmente strutturarsi secondo due filoni principali:

  1. impegno a corrispondere nei tempi previsti un certo importo ai creditori, cosicchè l’obbligazione potrà ritenersi adempiuta al pagamento tempestivo della cifra pattuita, indipendentemente dal risultato consuntivo della gestione dell’attività, migliore o peggiore rispetto al piano,
  2. impegno a proseguire l’attività per cinque anni, e ad assegnare il risultato conseguito al netto del mantenimento della famiglia ai creditori, secondo percentuali che costituiscono solo una stima della soddisfazione, e non un impegno, e con la conseguenza che eventuali variazioni rispetto al pianificato, beneficeranno o penalizzeranno la soddisfazione dei creditori, pur nel perfetto adempimento della proposta.

 

Di conseguenza, la quantificazione della percentuale di soddisfazione potrà assumere il rilievo dell’impegno o della stima, in relazione ai diversi contenuti convenzionali che il debitore decida di proporre ai creditori, inclusivi dei tempi, che nei diversi casi di continuità o liquidazione avranno una diversa articolazione. La liquidazione richiede semplicemente che si stimi prudentemente l’arco temporale in cui si prevede che i beni possano essere ceduti, mentre la continuità obbliga ad una verifica progressiva delle disponibilità, esemplificata nella tabella che segue:

La posizione dei creditori privilegiati. I tempi di pagamento superiori all’anno.

Ulteriore questione interessa il caso in cui, e non è infrequente, ai creditori privilegiati venga proposta una articolazione dei pagamenti superiore all’anno, termine massimo di moratoria previsto dalla norma (art. 8, comma 4, L. 3/2012). Secondo un certo orientamento giurisprudenziale (Tribunale di Roma 29.7.2010 in Fallimento, 2011, 225; Tribunale di Udine 14.2.2011 in Fallimento, 2011, 225), il pagamento integrale dei creditori privilegiati deve essere inteso sia in senso quantitativo che in senso qualitativo, come temporalmente immediato all’esito dell’omologa o, comunque, non appena decorso il periodo di moratoria. Secondo tale lettura, quindi, l’esclusione dal voto di tali creditori troverebbe giustificazione solo in quanto essi non siano in alcun modo incisi nel loro diritto, con la conseguenza che la categoria dei creditori privilegiati il cui pagamento sia previsto nell’arco dell’intero piano, dovrebbero accedere al voto, avendo comunque subito un pregiudizio nelle modalità di pagamento.

Secondo altro orientamento, ritenuto preferibile da taluna dottrina (cfr. Lo Cascio, Codice Commentato del Fallimento, Milano, 2013, 1869), sarebbe invece ammessa la soddisfazione in tempi dilazionati dei crediti privilegiati, da considerarsi “integrale”, anche ai fini dell’accesso al voto, quando il ritardo sia controbilanciato dalla corresponsione degli interessi (Trib. Milano 30.9.2005 in Fallimento, 2006, 580; Tribunale di Mantova 16.9.2010).

Merita peraltro evidenziare come di recente la Suprema Corte abbia affrontato l’argomento affermando che “l’adempimento con una tempistica superiore a quella imposta dai tempi tecnici della procedura equivale a soddisfazione non integrale degli stessi in ragione della perdita economica conseguente al ritardo, rispetto ai tempi normali, con il quale i creditori conseguono la disponibilità delle somme ad essi spettanti. La determinazione di tale perdita, rilevante ai fini del computo del voto ex art. 177, comma 3, della Legge Fallimentare, costituisce un accertamento in fatto che il giudice di merito deve compiere alla luce della relazione giurata ex art. 160, comma 2, della medesima legge, considerando gli eventuali interessi offerti ai creditori ed i tempi tecnici di realizzo dei beni gravati in ipotesi di soluzione alternativa al concordato, oltre che il contenuto della proposta, nonché il regime legale degli interessi di cui agli artt. 54 e 55 della Legge Fallimentare” (Cass. Civ. 23.2.2016 n. 3482; conferma Cass. Civ. 26.9.2014 n. 20388).

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